Sono “chiuse” le società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e sono “aperte” quelle che per converso vi fanno ricorso. Si può poi ulteriormente distinguere tra le società chiuse in senso stretto, per le quali sussiste una preclusione giuridica rispetto all’ingresso nel mercato dei capitali di rischio (come avviene nella private company del Regno Unito e nella close corporation statunitense); e le società attualmente chiuse, per le quali la chiusura è frutto di una libera opzione dei soci, che scelgono di non fare ricorso al mercato per il reperimento di capitali (ma potrebbero farlo in un momento successivo) ed, eventualmente, introducono altresì meccanismi statutari o parasociali di limitazione temporanea alla circolazione delle partecipazioni.
Storicamente, si fa risalire la genesi delle società azionarie “aperte” alle Compagnie delle Indie del XVII secolo, costituite per gestire nel periodo coloniale le prime imprese di grandi dimensioni e caratterizzate appunto da un’apertura verso l’investimento di massa, che consentiva di raccogliere le risorse necessarie per i lunghi viaggi oceanici ripartendone i rischi.
Nella prospettiva dell’analisi economica del diritto, le due categorie si distinguono significativamente per la diversa rilevanza che assumono gli agency problem.
Invero, nelle società aperte, soprattutto in presenza di un azionariato diffuso “alla Bearl and Means”, è prioritario il componimento del potenziale conflitto tra gli azionisti (complessivamente considerati) e gli amministratori.
Per converso, nelle società chiuse, stante la stretta comunanza di interessi, se non la coincidenza fisica, tra soci di maggioranza e amministratori, viene in rilievo il possibile contrasto tra soci di maggioranza e soci di minoranza.
Non solo. Nella società aperta il socio di minoranza è considerato e tutelato come un “investitore”, piuttosto che come una parte del contratto sociale. Le regolamentazioni ad hoc per le società che operano nei mercati regolamentati, infatti, si spiegano in forza del riconoscimento della vulnerabilità degli investitori, che si ritiene debbano essere protetti da una struttura di governance efficiente. Gli strumenti normativi tipicamente utilizzati per la protezione degli azionisti di società aperte (come gli obblighi di disclosure), pertanto, non sono solo troppo costosi per essere imposti anche alle società chiuse, solitamente di minori dimensioni. Ma, soprattutto, si tratta di strumenti generalmente meno utili per le società predette, atteso che gli azionisti sono già in possesso di informazioni sufficienti sulle società nelle quali investono.
È, quindi, una valutazione costi benefici quella che induce a limitare determinate forme di tutela degli azionisti alle società aperte.
Con riguardo al nostro ordinamento, la distinzione emerge evidente con la riforma del diritto societario, che all’art. 2325-bis c.c. ricomprende nella categoria delle s.p.a. aperte sia le società quotate sia quelle con azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante. La scelta di fondo del legislatore del 2003 è sembrata quella di redigere il modulo generale delle norme sulle s.p.a. avendo quale tipologia concreta di riferimento una società aperta. La conseguenza è stata la formulazione di regole di funzionamento che per le s.p.a. chiuse si sono rivelate da un lato eccessivamente complesse nel modello legale e dall’altro troppo rigide rispetto all’adattabilità statutaria, nonché l‘articolazione di meccanismi di tutela delle minoranze essenzialmente in chiave di exit e quindi di monetizzazione del dissenso. In dottrina è stato evidenziato come sarebbe stata preferibile una maggiore distinzione da parte del legislatore tra le due sottocategorie di s.p.a., con la previsione di una struttura organizzativa più leggera e flessibile per le s.p.a. chiuse, favorendo anche nel nostro ordinamento una polarizzazione interna alle società di capitali che contrapponga le private companies (s.p.a. chiuse e s.r.l.) alle public companies (s.p.a. aperte).
Dalla società per azioni chiusa si è invece venuta staccando la s.r.l., con una disciplina che in occasione della riforma del diritto societario si emancipava in modo maggiore da quella della società per azioni, in ogni caso connotandosi per la mancanza di azioni e per il carattere chiuso della compagine sociale.
Eppure negli ultimi anni la società a responsabilità limitata ha subito un’evoluzione di segno opposto rispetto a quello della s.p.a. Quest’ultima nasce come società aperta e solo successivamente si perviene all’allargamento alle strutture chiuse. Al contrario, la s.r.l. viene originariamente delineata come società chiusa con una ristretta base sociale, ma una serie di deroghe al diritto societario hanno condotto a una sua apertura ai mercati del capitale di rischio.
In particolare, l’art. 26 del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 ha introdotto con esclusivo riguardo alle start-up innovative costituite in forma di s.r.l. vistose deroghe al diritto societario: è stata prevista la possibilità di creare categorie di quote, anche che non attribuiscano diritto di voto o che lo attribuiscano in misura non proporzionale alla partecipazione ovvero limitato o condizionato; è stato consentito alle quote di partecipazione di essere oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari, anche attraverso i portali per la raccolta di capitali; è stata ammessa l’emissione di strumenti finanziari; ed è venuto meno, a certe condizioni, il divieto di compiere operazioni sulle proprie partecipazioni. Nel 2015 tali deroghe sono state estese alle PMI innovative e nel 2017 a tutte le s.r.l. qualificabili come PMI.
L’apertura ai mercati e ad assetti partecipativo-finanziari “paraazionari” ha condotto ad una “compulsa manipolazione genetica” ad opera del legislatore, che tende a scolorire le differenze tra s.r.l. e s.p.a., avviando un processo di progressiva alterazione dei tipi societari o di detipizzazione del tipo non azionario. La conseguenza è che oggi, accanto alle società per azioni chiuse o aperte si può distinguere anche tra s.r.l. chiuse o aperte. Invero, la prospettiva, come è stato attentamente notato, è invertita: “la s.p.a. aperta deve superare determinate soglie; la s.r.l. aperta non può superare determinate soglie. In altre parole la s.p.a. aperta è una grande impresa, la s.r.l. aperta è una piccola – media impresa”.
La possibilità di offrire al pubblico le partecipazioni – utilizzando anche i portali online dedicati al crowdfunding – è considerata la primaria espressione della transizione della s.r.l. verso modelli che consentono l’ampliamento dei canali di raccolta del capitale di rischio e, quindi, l’“apertura” delle società. La deroga al divieto di offerta al pubblico delle quote concessa alle s.r.l. PMI costituisce, infatti, la più significativa forma di avvicinamento al modello azionario.
Il divieto per le s.r.l. di offrire al pubblico le partecipazioni di cui all’art. 2468, primo comma, c.c. è assunto dalla riforma quale elemento distintivo della s.r.l. rispetto alla s.p.a. La ratio del divieto viene individuata nella volontà di escludere il ricorso al capitale di rischio da parte delle s.r.l., impedendo la formazione di un mercato di quote di società pensate per “soci imprenditori” e, per tale motivo, soggetto ad un regime più flessibile e conseguentemente meno tutelante per le minoranze. E difatti, si ritiene che la riforma del diritto societario abbia accordato un così largo spazio all’autonomia statutaria in materia di s.r.l. proprio per la presenza tendenzialmente esclusiva in questo tipo societario di soci imprenditori in grado di predisporre autonomamente i mezzi di tutela reputati più opportuni.
Per converso, nelle s.p.a., si rende necessario affidarsi all’eterotutela dell’ordinamento per “la presenza di soci meri investitori, istituzionalmente incapaci, per disinformazione o scarsa provvedutezza, di partecipare in condizioni di parità alla redazione delle regole di funzionamento delle società destinate a vincolarli”. Per salvaguardare l’elasticità come caratteristica essenziale del tipo s.r.l. occorreva allora impedire che questa potesse condurre ad abusi da parte di soci imprenditori a danno di soci meno consapevoli, da qui il divieto di offerta al pubblico delle quote di partecipazione di tali società.
Per tali ragioni, la deroga al divieto di offerta al pubblico delle quote concessa alle s.r.l. PMI è già stata oggetto di forti critiche. In particolare, è stato evidenziato come la riforma del diritto societario abbia semplificato la s.r.l. sul presupposto che questa fosse una società davvero chiusa, e quindi utilizzata per la gestione di una ristretta base sociale senza poter raccogliere risparmio. In forza di tale caratteristica il legislatore della riforma avrebbe quasi equiparato la s.r.l. alla società in nome collettivo, ma integrandone la disciplina con il privilegio della responsabilità limitata. Lo stesso privilegio d’altra parte è quello che ha imposto una disciplina sofisticata per le società con base azionaria, di modo da consentire che la raccolta tra il pubblico del risparmio avvenisse con le opportune cautele. La possibilità di offrire le quote al pubblico avrebbe quindi come conseguenza la creazione di una società aperta, che gode del privilegio della responsabilità limitata, ma non dispone di misure idonee a tutelare il risparmio: “Il principio è: se si vuole raccogliere risparmio tra il pubblico con il privilegio della limitazione della responsabilità, si deve adeguare la propria organizzazione alla forma complessa della spa”.
In conclusione, l’impressione è che il legislatore sia intervenuto in modo incisivo, ma “senza effettivamente modificare […] l’ordinamento della società a responsabilità limitata in termini tali da rendere il tipo funzionale alla raccolta di risparmio presso il pubblico”. Invero, non è stata predisposta una disciplina specificamente dedicata alle s.r.l. aperte, fatta eccezione ovviamente per la facoltà di offrire al pubblico le proprie partecipazioni, nonché per le regole relative al crowdfunding contenute nel t.u.f. e nel regolamento Consob. Tuttavia, la normativa che regola la società per azioni mostra come non sia possibile e nemmeno auspicabile una disciplina uniforme della società di capitali chiusa e aperta.
Di conseguenza, dinnanzi a una PMI costituita in forma di s.r.l. che consenta di offrire al pubblico le proprie partecipazioni, il problema fondamentale che si pone per l’interprete è quello di ricostruire la disciplina applicabile. In particolare, due sembrano le opzioni percorribili. La prima è quella di individuare uno statuto generale dell’impresa aperta al mercato, azionaria e non, creando quindi una nuova contrapposizione tipologica, diversa rispetto a quella tra s.r.l. e s.p.a. La seconda è quella di estendere alla s.r.l. aperta la disciplina della s.p.a. quando vi siano soci investitori dotati di partecipazioni di carattere azionario.
Dott.ssa Giulia Cavallarin