Con l’ordinanza n. 19881 del 23.7.2019 la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sull’annosa questione dell’esperibilità dell’azione revocatoria nei confronti di un fallimento.
Il problema sembrava essere stato definitivamente risolto dalla pronuncia a Sezioni Unite resa dalla stessa Corte con la sentenza n. 30416 del 23.11.2018 a mezzo della quale era stata ritenuta “inammissibile l’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare, esperita nei confronti di un fallimento, trattandosi di un’azione costitutiva che modifica “ex post” una situazione giuridica preesistente ed operando il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso in funzione di tutela della massa dei creditori”. Fatta eccezione per le azioni revocatorie avviate e trascritte prima della dichiarazione di fallimento dell’acquirente giacché gli effetti restitutori conseguenti alla revoca retroagiscono alla data della domanda.
Il predetto orientamento è stato tuttavia aspramente criticato dalla Prima Sezione del Supremo Collegio che ritiene necessario procedere ad un ripensamento a seguito alle novità introdotte dal “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza“, la cui disciplina viene richiamata a fini interpretativi e ricostruttivi, in quanto parte integrante dell’ordinamento positivo (nonostante la lunga vacatio legis prevista). In particolare la norma che segna un’evidente incrinatura nelle argomentazioni a sostegno dell’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel precedente arresto è l’art. 290, comma 3 del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 ai sensi del quale “Il curatore della procedura di liquidazione giudiziaria aperta nei confronti delle altre società del gruppo può esercitare, nei confronti delle altre società del gruppo, l’azione revocatoria prevista dall’art. 166, degli atti compiuti dopo il deposito della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. a) e b), nei due anni anteriori al deposito della domanda o nell’anno anteriore, nei casi di cui all’art. 166, comma 1, lett. c) e d)“. La predetta disposizione, secondo quanto si legge nell’ordinanza, avrebbe quindi codificato l’applicazione del principio di ammissibilità dell’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, nei confronti della procedura concorsuale.
Ed infatti, precisa la Prima Sezione della Suprema Corte, dichiarare inammissibile un’azione revocatoria nei confronti di un fallimento si risolverebbe -di fatto- nel diniego della tutela assicurata dalla legge al creditore – ovvero a un intero ceto creditorio, quando ad agire in revocatoria ordinaria sia un fallimento – per un evento che colpisce un terzo ed arricchisce i creditori di quest’ultimo a suo danno. In altri termini precisa la Corte “sostenere che il fallimento del terzo impedisce la possibilità di agire in revocatoria contro la procedura significa creare una fattispecie di irrevocabilità sopravvenuta dell’acquisto: il fallimento “ripulisce” l’acquisto che viene a sanarsi per una vicenda propria del terzo avente causa (magari provocata proprio dal debitore, società controllante che trasferisce il cespite e fa fallire la controllata)”.
Nell’ordinanza de qua la Prima Sezione si spinge inoltre sino a criticare l’impostazione offerta dalle Sezioni Unite secondo la quale l’azione revocatoria debba essere annoverata tra le azioni costitutive preferendo la diversa -e apparentemente più convincente- opinione che l’azione revocatoria si manifesta piuttosto come azione di accertamento con effetti costitutivi rispetto alla quale chi la propone non richiede l’accertamento né di un diritto di credito, né di un diritto reale o personale di godimento, ma una pronuncia che ricostituisca la garanzia patrimoniale del proprio debitore.
Alla luce di tali argomentazioni, conclude la Corte, risulta necessario quindi rimettere (di nuovo) la questione alle Sezioni Unite.
Avv. Carlotta Seghi