La questione, attinente alla corretta ripartizione del ricavato dalla vendita fallimentare di beni ipotecati che si rivelino incapienti, implica una preventiva analisi delle norme di cui agli artt. 111 bis, co. 2 e 111 ter, co. 3 della Legge Fallimentare, in tema di prededuzione.
Chiara parrebbe la prima disposizione, in particolare laddove sancisce il principio di priorità di soddisfacimento dei crediti sorti in prededuzione rispetto ai crediti assistiti da cause legittime di prelazione, salvo il caso in cui oggetto di riparto siano le somme ricavate dalla vendita di beni ipotecati. In queste circostanze, infatti, quanto ritratto dalla liquidazione dell’immobile dovrebbe necessariamente essere messo a disposizione del creditore ipotecario, anteposto rispetto ai creditori in prededuzione.
Pur tuttavia, la norma appena menzionata non esaurisce, di per sé, il novero delle regole volte a disciplinare nel complesso i rapporti (e gli eventuali conflitti) tra prededuzione e garanzie reali in sede di riparto, dovendosi procedere piuttosto ad una lettura del secondo comma dell’art. 111 bis in combinato disposto con il terzo comma dell’art. 111 ter. Quest’ultima disposizione prevede che il curatore debba tenere un conto autonomo delle vendite dei singoli beni immobili oggetto di privilegio speciale e di ipoteca, con analitica indicazione delle entrate e delle uscite di carattere specifico e della quota di quelle di carattere generale imputabili a ciascun bene o gruppo di beni secondo un criterio proporzionale.
Ivi potrebbe sorgere il dubbio se la previsione in commento abbia valenza di una mera regola contabile (come spesso sostenuto dagli istituti di credito) oppure sia effettivamente idonea a vincolare il curatore nella redazione del piano di riparto.
Sul punto la giurisprudenza, in maniera unanime, osserva come il terzo comma dell’art. 111 ter integri la disciplina di base posta dall’art. 111 bis, imponendo che le spese inerenti alla conservazione, amministrazione, vendita del bene ed un’aliquota delle spese generali debbano obbligatoriamente essere imputate anche alle somme derivanti dalla vendita dell’immobile, pur quando esse non siano idonee a soddisfare integralmente il creditore ipotecario. Giova in tal senso citare la consolidata giurisprudenza della curia milanese per cui “la previsione (l’art. 111 ter, co.3) non pone una regola solo di carattere contabile e fine a se stessa (omissis), ma detta un criterio di regolamentazione degli eventuali conflitti tra crediti prededucibili e crediti assistiti da cause di prelazione, che va risolto facendo gravare sul ricavato dei beni oggetto di garanzia sia le spese prededucibili specificamente sostenute per la loro conservazione, amministrazione e liquidazione sia un’aliquota delle spese generali in quanto sostenute nell’interesse di tutti i creditori”(T. Milano, 21 maggio 2015 in ilcaso.it; 1 aprile 2017 e 3 aprile 2017 in DeJure; cfr. T. Trapani, 21 dicembre 2019 in DeJure; T. Como, 18 dicembre 2019 in DeJure; T. Massa, 6 ottobre 2017 in DeJure; App. Catania 25 gennaio 2016 in DeJure).
Quest’ultimo risulta essere peraltro l’orientamento seguito dalla Corte di Cassazione prima della novella legislativa del 2006 che ha mutato nei suoi connotati essenziali la disciplina della prededuzione, quando già si era affermava che “sul ricavato della vendita degli immobili gravati da garanzia reale vanno collocate in prededuzione non solo le spese riconducibili alla conservazione e liquidazione del bene ipotecato ma anche una quota parte del compenso del curatore, ed infine una porzione delle spese generali della procedura da determinarsi in misura corrispondente all’accertata utilità delle stesse per il creditore garantito, adottando, ove non sia possibile un’esatta valutazione dell’incidenza delle spese generali su quelle specifiche, il criterio di proporzionalità, la cui applicabilità è tuttavia subordinata alla certezza dell’utilità di tali spese per il creditore garantito” (Cass. Civ.12 maggio 2010, n. 11500 in DeJure).
L’introduzione degli articoli 111 bis e ter ad opera della riforma organica apportata dal D.lgs 5/2006 non ha pertanto in alcun modo “intaccato” una simile impostazione, semmai andando ad incidere sui criteri in base ai quali il curatore è chiamato ad imputare le spese generali (che ricomprendono, a titolo esemplificativo, le spese di verifica del passivo, le spese per le comunicazioni ai creditori ed il compenso del curatore). Con il secondo comma dell’art. 111 bis il legislatore ha inteso sostituire il criterio dell’”utilità”, cui espressamente ha fatto riferimento la giurisprudenza prima della menzionata riforma, con il criterio della “proporzionalità” (desumibile dal raffronto tra le masse attive mobiliare ed immobiliare), in applicazione di un più generale principio di “solidarietà concorsuale” (T. Milano 3 aprile 2017, cit.; T. Piacenza, 4 febbraio 2015 in ilcaso.it; T. Treviso 10 giugno 2014 in Fallimenti&Società). E si noti, per di più, che all’imputazione proporzionale delle spese generali, specialmente per quel che concerne l’onorario del curatore, non si sottrae nemmeno l’istituto di credito che abbia promosso direttamente l’esecuzione individuale in pendenza di fallimento ai sensi dell’art. 41 T.U.B. (così T. Milano 18 ottobre 2018 in ilcaso.it).
Esulano invece da suddetta categoria di spese gli esborsi funzionali alla custodia, amministrazione e vendita del bene, gravanti per l’intero sull’ipotecario, tra i quali rientra, occorre evidenziarlo, il credito fiscale relativo all’immobile ipotecato e maturato in corso di procedura (cfr. T. Milano, 21 maggio 2015 in ilcaso.it; 1 aprile 2017, cit, e 3 aprile 2017, cit; T. Como, 18 dicembre 2019 in DeJure).
Marco Greggio