Con la sentenza n. 30416 del 25.9.2018 (pubblicata il 23.11.2018) le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono pronunciate in merito all’esperibilità dell’azione revocatoria (sia ordinaria che fallimentare) nei confronti di un fallimento statuendone la non ammissibilità “[…] stante il principio di cristallizzazione del passivo alla data di apertura del concorso ed il carattere costitutivo delle predette azioni; il patrimonio del fallito è, infatti, insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque, poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura stessa”.
La pronuncia in commento origina dal ricorso per Cassazione proposto dall’assuntrice di un concordato fallimentare avverso una sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Catania nel giudizio tra la predetta procedura e il fallimento. La predetta Corte aveva infatti accolto l’appello presentato da quest’ultimo fallimento ritenendo, contrariamente al Giudice di prime cure, “improcedibile” l’azione revocatoria intentata ex art. 66 L.Fall. dal fallimento in riferimento ad un atto di alienazione avvenuto tra le due società durante il periodo in cui erano in bonis.
In particolare secondo la Corte d’Appello “l’azione revocatoria ordinaria intrapresa dal primo fallimento, […], incorreva nel divieto di cui all’art. 51 L.Fall., […]”.
Ciò detto, la causa è stata rimessa dalla Prima Sezione al Primo Presidente della Cassazione per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, essendo stato rilevato, da un lato il contrasto giurisprudenziale sulla tematica in oggetto, dall’altro la particolare importanza della medesima questione anche in relazione alle operazioni infragruppo tra società in avanzato stato di decozione volte a favorire una massa creditoria rispetto all’altra.
Invero, l’ordinanza di remissione ha rilevato la sussistenza di un vero e proprio contrasto di opinioni in seno alla stessa Corte circa la proponibilità dell’azione revocatoria avverso un fallimento. Secondo il più recente orientamento (in particolare, cfr. Cass. 12.5.2011, n. 10486 e Cass. 8.3.2012, n. 3672) la revocatoria, sia ordinaria che fallimentare, non è ammissibile nei confronti di un fallimento, laddove “la proponibilità dell’azione urterebbe contro il «principio di cristallizzazione della massa passiva alla data di apertura del concorso», così come stabilito dall’art. 51 e 52 L.Fall.: «posto che l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce soltanto a seguito della sentenza che accoglie la domanda», per il «carattere costitutivo» della detta azione”. Di contro, un più vetusto orientamento (cfr. ex multis Cass. 14.10.1963, n. 2746; Cass. 30.8.1994, n. 7583; Cass. 21.7.1998, n. 7119; Cass. 28.2.2008, n. 5275; Cass. 27.10.2015, n. 21810; Cass. 4.10.2016, n. 19795) ha sempre ritenuto che “il giudizio revocatorio ben potrebbe «proseguire» […] pur se sopravvenga, nelle more di questo, il fallimento del soggetto che è stato convenuto in revocatoria”. E ciò anche a fronte della possibilità per il curatore di subentrare nella posizione del singolo creditore e proseguire il giudizio da esso intrapreso ante fallimento.
Le Sezioni Unite hanno risolto la vexata quaestio affrontando dapprima il tema della natura giuridica dell’azione revocatoria, ritenendo che “la sentenza che accoglie la domanda revocatoria, sia essa ordinaria o fallimentare, […], ha natura costitutiva, in quanto modifica «ex post» una situazione giuridica preesistente, sia privando di effetti atti che avevano già conseguito piena efficacia, sia determinando, conseguentemente la restituzione dei beni o delle somme oggetto di revoca alla funzione di generale garanzia patrimoniale (art. 2740 c.c.) e alla soddisfazione dei creditori di una delle parti dell’atto”.
Tuttavia, la natura costitutiva della sentenza che accoglie una domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. ovvero ex artt. 66 e 67 L.Fall. stride evidentemente con il principio di cristallizzazione del passivo fallimentare: “il patrimonio del fallito è infatti insensibile alle pretese di soggetti che vantino titoli formatisi in epoca posteriore alla dichiarazione di fallimento e, dunque”.
Pertanto, “poiché l’effetto giuridico favorevole all’attore in revocatoria si produce solo a seguito della sentenza di accoglimento, tale effetto non può essere invocato contro la massa dei creditori ove l’azione sia stata esperita dopo l’apertura della procedura”.
Infine, con riferimento al tema della revocatoria nelle c.d. “operazioni infragruppo” (ex art. 91 del D.Lgs. 8.7.1999, n. 270) la Suprema Corte ha osservato che essendo quella disciplinata dal D.Lgs n. 270/1999 una procedura concorsuale “speciale”, i “presupposti specifici” ai quali essa è ancorata “non consentono di invocare ragioni di coerenza normativa e sistematica in grado di giustificare l’applicazione della regola dalla stessa posta anche alla procedura fallimentare, oltre il caso dalla stessa disciplinato”.
Dott. Andrea Zanellato