Lo statuto è l’atto che disciplina l’organizzazione interna ed il funzionamento della società nel rispetto delle norme inderogabili poste dal codice civile.
Chi intenda entrare a far parte di una società in modo consapevole, pertanto, dovrà esaminare la disciplina statutaria soprattutto con riferimento a temi fondamentali quali: le maggioranze richieste per l’assunzione delle decisioni (o deliberazioni), i sistemi di amministrazione e controllo, la distribuzione degli utili, il diritto di recesso e il trasferimento della partecipazione sociale.
Il contributo, in particolare, si concentrerà sull’aspetto da ultimo menzionato prendendo dapprima in considerazione le società di persone e a seguire le società di capitali. Infatti, se nelle prime – caratterizzate dalla preminenza dell’elemento soggettivo e, quindi, dall’intuitu personae – la difficoltà principale è quella di derogare in modo legittimo ad un regime di trasferimento delle quote sociali tendenzialmente rigido; nelle seconde – caratterizzate dalla preminenza dell’elemento oggettivo su quello soggettivo –, al contrario, si pone un problema di ammissibilità delle clausole che consentono una (quanto meno) parziale immobilità della compagine sociale.
Nelle società di persone, a differenza delle società di capitali, vige il principio della intrasmissibilità per successione a causa di morte della partecipazione sociale. In particolare, da una lettura dell’art. 2284 c.c., si evince che la morte del socio è causa di scioglimento del singolo rapporto sociale e, conseguentemente, i diritti spettanti ai successori del socio defunto, sulla quota di cui il medesimo era titolare, saranno limitati alla mera liquidazione della stessa.
Approfondendo la lettura della disposizione, tuttavia, si scorge un temperamento consistente nella possibilità, concessa ai soci superstiti, di optare per la continuazione della società con gli eredi (ovviamente previo consenso degli stessi) o per lo scioglimento del vincolo sociale. A ciò si aggiunga che la disciplina legale è ampiamente derogabile dall’autonomia negoziale dei soci, i quali possono introdurre nel contratto sociale specifiche pattuizioni, al fine di “anticipare” il momento cui valersi della triplice opzione prevista dall’art. 2284 c.c. In particolare, tra le clausole maggiormente diffuse e volte a derogare al regime della intrasferibilità mortis causa rientrano senza dubbio quelle di continuazione e di consolidazione.
Le prime sono le clausole con cui viene stabilito ex ante che, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono continuare la società con gli eredi del socio defunto. Tradizionalmente se ne distinguono diversi tipi e precisamente:
- i) la clausola di continuazione facoltativa che impone ai soci di continuare la società con gli eredi e, allo stesso tempo, riconosce a questi ultimi la facoltà di aderire o meno al contratto sociale;
- ii) la clausola di continuazione obbligatoria che ricorre quando il contratto sociale impone ai soci e agli eredi di continuare la società e, parallelamente, obbliga gli eredi ad entrare in società;
iii) la clausola di successione, denominata anche clausola di continuazione automatica o necessaria, secondo la quale l’accettazione dell’eredità comporta automaticamente l’assunzione della qualità di socio. La clausola non richiede pertanto una specifica manifestazione di volontà degli eredi in merito al subingresso in società, che diviene effetto automatico dell’accettazione dell’eredità.
Se non vi sono dubbi circa la validità della clausola di continuazione facoltativa, altrettanto non può dirsi rispetto agli altri tipi di clausola data la automaticità e la vincolatività degli effetti che si producono in capo agli eredi (terzi rispetto al contratto sociale). In particolare, sembra prevalente l’orientamento che le ritiene nulle per violazione del divieto di patti successori. Tuttavia, quantomeno con riferimento alle clausole di continuazione obbligatoria, ne è stata sostenuta la validità (anche in giurisprudenza seppur implicitamente e nelle rare pronunce in materia), ritenendo che le stesse non siano volte a disporre di una successione non ancora aperta, ma a regolare la conseguenza della morte sulla partecipazione. A tal fine, si evidenzia come tali clausole non vincolino la libertà dell’erede che può sempre evitare l’ingresso in società rifiutandosi di accettare l’eredità ovvero può limitare la sua esposizione personale accettando l’eredità con beneficio di inventario.
Le clausole di consolidazione, invece, sono quelle che, per contrario, tendono a rafforzare la posizione dei soci superstiti tramite l’accrescimento in favore dei medesimi della quota del socio defunto. Sono, tuttavia, da ritenersi invalide – per contrarietà a norme imperative – le cosiddette clausole di consolidazione pure, ossia quelle che escludono ogni diritto degli eredi alla liquidazione della quota del socio.
Da ultimo, con riferimento alle società di persone, occorre osservare che la circolazione inter vivos delle quote è certamente consentita, ma avendosi una modifica soggettiva del contratto sociale (art. 2252 c.c.), il trasferimento della partecipazione è possibile solo previo consenso unanime di tutti i soci. Sorge spontaneo chiedersi, quindi, se sia ammissibile una clausola che preveda la preventiva libera trasmissibilità della quota sociale – ossia senza necessità del consenso unanime – e sembra potersi concludere per l’assoluta liceità della stessa considerando che né l’interesse dei soci (che di tale interesse hanno esplicitamente disposto prevedendo tale possibilità), né quello dei creditori (tutelati dalla responsabilità illimitata del socio cedente ex art. 2290 c.c. e di quella del cessionario ex art. 2269 c.c.) verrebbero pregiudicati.
Nelle società di capitali, come anticipato e diversamente da quanto esaminato con riferimento alle società di persone, vige il principio della libera trasferibilità della partecipazione sia inter vivos che mortis causa. La disciplina legale (ci si riferisce all’art. 2355-bis c.c. in tema di s.p.a. e l’art. 2469 c.c. in tema di s.r.l.), tuttavia, consente, da un lato, di vietare la circolazione; dall’altro, di introdurre limiti alla stessa.
In particolare, con riferimento alle clausole statutarie che istituiscono il divieto di cedere le partecipazioni sociali, nelle s.p.a. la circolazione delle azioni può essere vietata per il periodo massimo di cinque anni dalla costituzione della società o comunque dall’introduzione del divieto; nella s.r.l., invece, la circolazione delle quote sociali può essere vietata per il periodo massimo di due anni senza limitazioni e oltre tale periodo solo se il contratto di società attribuisce al socio il diritto di recesso.
Per quanto concerne, invece, le limitazioni alla circolazione, che non si traducono in un divieto assoluto di cessione della partecipazione, sono particolarmente diffuse nella prassi statutaria le clausole di prelazione e di gradimento.
La prima è la clausola che impone al socio, che intende cedere le proprie azioni o la propria quota sociale, di offrirle preventivamente agli altri soci e di preferirli a terzi a parità di condizioni.
Di regola, dunque, è prevista la parità di condizioni tra i soci ed il terzo possibile acquirente, tuttavia, è possibile consentire ai soci destinatari dell’offerta in prelazione di contestare il prezzo, chiedendo che il medesimo sia rideterminato da terzi arbitratori. Le clausole di prelazione di questo tipo si definiscono “improprie” e possono costituire un ostacolo all’obiettivo di cedere in modo soddisfacente la propria partecipazione sociale, specie quando la procedura di verifica del prezzo è complessa e costosa o comunque ha come risultato un’importante riduzione del prezzo medesimo. Invero, va sottolineato che la clausola deve ritenersi invalida qualora abbia l’effetto di imporre al socio di cedere le proprie azioni o la propria quota ad un prezzo inferiore al valore di liquidazione in caso di recesso.
Le clausole di gradimento, invece, sono quelle che richiedono il possesso di determinati requisiti da parte dell’acquirente o che subordinano il trasferimento al consenso di un organo sociale (c.d. clausole di mero gradimento).
Le previsioni convenzionali del secondo tipo, tuttavia, sono efficaci a condizione che, nell’ipotesi di rifiuto del gradimento, sia riconosciuto all’alienante il diritto di recesso ovvero esclusivamente nelle s.p.a., in alternativa, un obbligo di acquisto a carico delle società o degli altri soci.
Da ultimo, sempre con riferimento ai limiti alla circolazione della partecipazione sociale, sembra opportuno prendere in considerazione anche un’altra tipologia di clausole dato il crescente interesse che la prassi sta dimostrando per il loro inserimento negli statuti sociali.
Ci si riferisce, nello specifico, alle clausole di covendita, tra cui si annoverano quelle di trascinamento (drag along), cui si affianca la variante del bring along, e quelle di accodamento (tag along).
In forza delle prime, un socio, solitamente quello che partecipa al capitale sociale per una determinata soglia minima, in caso di alienazione della sua partecipazione, può portarsi dietro il socio o i soci di minoranza, obbligati ad alienare insieme a lui e alle medesime condizioni. Il discrimine fra drag e bring along risiede nel soggetto titolare del diritto potestativo di attivare il meccanismo della covendita, che è il socio trascinante, nel primo caso e il terzo acquirente, nel secondo.
Solitamente, come sopra precisato, il socio trascinante è quello di maggioranza mentre il trascinato è quello di minoranza, ma nulla esclude che i criteri di individuazione siano diversi, secondo le esigenze dei soci.
La clausola di trascinamento può anche coesistere con quella di prelazione e anzi, sovente, il presupposto del trascinamento si verifica quando il terzo fa una proposta d’acquisto e il diritto di prelazione non è esercitato dal socio di minoranza.
É evidente che una simile clausola può concretamente atteggiarsi a limitazione del potere di disporre e la stessa si deve reputare lecita purché consenta una equa valorizzazione della partecipazione obbligatoriamente dismessa.
La prospettiva è rovesciata, invece, nelle clausole di accodamento, ove è il socio di minoranza che, in caso di alienazione della partecipazione del socio di maggioranza, ha diritto di accodarsi alle stesse, alienando alle stesse condizioni, ma senza partecipare alle trattative.
Dott.ssa Giulia Cavallarin